LA CALDA FORESTA

LA FORESTA TROPICALE SARA’ DESTINATA A SPARIRE PER SEMPRE?

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In Sud America, la foresta pluviale amazzonica, un’area grande due volte la California, ha risentito gravemente dei fenomeni siccitosi iniziati nel 2005. La gravissima carenza d’acqua, verificatasi nel 2005 e proseguita nel 2006, ha causato danni molto maggiori di quelli stimati preventivamente dagli studiosi e il suo impatto dura più a lungo di quanto supposto, aggravato ulteriormente da un’altra siccità nel 2010. Alcuni ricercatori stimano che la foresta pluviale non è in grado di sopportare più di tre anni consecutivi di siccità. La combinazione di cambiamenti climatici e deforestazione aumenta l’effetto di essiccazione degli alberi morti, causa a sua volta di enormi incendi boschivi, e potrebbe accelerare la morte e la distruzione del Rio delle Amazzoni. Tra siccità e deforestazione, in diminuzione ma non certo esaurita, la foresta pluviale viene spinta verso un “punto di non ritorno” in cui comincerebbe a morire. L’intensità dell’uso del suolo influenza la velocità di rigenerazione nelle foreste pluviali tropicali, se la foresta pluviale muore e/o si trasforma in savana o in deserto, causerà conseguenze catastrofiche sul clima mondiale.

Le foreste pluviali tropicali sono una priorità per la conservazione della biodiversità, sono punti caldi di endemismo, ma anche alcuni degli habitat più minacciati a livello mondiale. La Foresta Atlantica si distingue tra le foreste pluviali tropicali perche ospita decine di migliaia di specie endemiche, locali. Per quanto riguarda il regno vegetale, in un ettaro di foresta amazzonica vi sono in media 400 differenti specie di alberi e piante, alcune non ancora studiate a fondo. Con un quinto di tutte le specie di volatili della Terra, duemila specie di mammiferi e altrettante di pesci, oltre a due milioni di specie di invertebrati, la foresta pluviale tropicale sud-americana viene considerata come il luogo con la maggiore bio-diversità del pianeta. Molte di queste specie sono scomparse negli ultimi vent’anni, come la lucertola nera, o la lontra di fiume, o il famoso Paiche, il pesce d’acqua dolce più grande del mondo, altre sono in via d’estinzione, come il “rio branco antbird”, che rischia di scomparire anche se la deforestazione è dimunuita, e l'”hoary-throated spinetail”, un grazioso passerotto destinato a perdere l’80 % del suo habitat nei prossimi decenni.

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Nella foresta pluviale amazzonica si stanno evidenziando i primi chiari segni di degrado ambientale dovuti ai cambiamenti climatici, come rivelano i dati raccolti dai satelliti della NASA. I delicati ecosistemi della zona sono a rischio e i danni conseguenti avranno ripercussioni sull’ecosistema globale. L’intervallo di tempo tra i due episodi di siccità è stato troppo breve per consentire alla flora di riprendersi, danneggiando 70 milioni di ettari di foresta.  “Tutto ciò potrebbe alterare la struttura e le funzioni degli ecosistemi pluviali della foresta amazzonica”, ha avvertito Sassan Saatchi del laboratorio Jet propulsion della Nasa. La deforestazione e il rilascio di carbonio contenuto nella vegetazione, fattori acceleranti il riscaldamento globale, non sono gli unici elementi di preoccupazione per i tecnici dell’ambiente che avvertono che nelle foreste pluviali è parallelamente in corso una grande perdita di biodiversità. Un modello matematico dei futuri cambiamenti climatici causati dai gas serra mostra che l’Amazzonia potrebbe diventare insostenibile entro il 2100, a causa della diminuzione delle precipitazioni, l’aumento delle temperature, la deforestazione e le emissioni di carbonio.

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La Foresta Amazzonica è una foresta umida di latifoglie che copre quasi tutto il bacino amazzonico in Sud America. Il bacino è costituito di 1,7 miliardi di ettari, di cui 1,4 miliardi di acri è foresta pluviale. Questa foresta pluviale copre nove nazioni (Brasile, Perù, Colombia, Venezuela, Ecuador, Bolivia, Guyana, Suriname e Guyana Francese). Il Brasile contiene quasi il 60% della foresta pluviale, mentre il Perù ha quasi il 13%. La Foresta Amazzonica rappresenta più della metà delle foreste pluviali rimanenti del pianeta. E’ la foresta pluviale più grande e più ricca di specie tropicali del pianeta ed è attualmente indicata come numero uno del gruppo E, costituito da macroregioni con alta presenza di foreste, parchi nazionali e riserve naturali.

La deforestazione della foresta pluviale ha avuto inizio nel 1960. Prima di questa data l’accesso all’interno della foresta è stato molto limitato e la foresta è rimasta in gran parte intatta. Gli insediamenti umani, incluse le aziende agricole, utilizzavano il taglia e brucia tecnica di rimozione di foreste per creare spazi aperti e terreni coltivabili. A causa della invasione delle infestanti e della perdita di fertilità del suolo, i contadini non potevano gestire i propri campi e dovevano continuare ad espandere le loro aziende e bonificare nuove aree.  Questi metodi di coltivazione hanno portato alla deforestazione su larga scala e hanno causato ingenti danni ambientali. Tra il 1991 e il 2000, la superficie totale di foresta perduta in Amazzonia è passata da 10.000 Km2 a 200.000 Km2. Quasi tutte le foreste perdute divennero pascoli per il bestiame. Il tasso medio annuo di deforestazione 2.000-2.004 ha visto un aumento del 18% rispetto ai cinque anni precedenti. Da questa data, a seguito dell’allarme lanciato dagli esperti di settore e delle campagne mondiali di sensibilizzazione e mobilitazione, la deforestazione è diminuita costantemente sino ad oggi, ma, come abbiamo visto, altri processi devastanti sono in corso, come la siccità dovuta al progressivo surriscaldamento del pianeta. Dal 2002, la terra protetta nella foresta pluviale amazzonica è quasi triplicata e tassi di deforestazione sono scesi fino al 60%  nelle aree soggette a tutela. Quasi 100 milioni di ettari di foresta pluviale sono stati aggiunti alla lista di conservazione dal 2002, che è attualmente pari a circa 175milioni di ettari.

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In una realtà complessa com’è quella del nostro pianeta è impossibile tracciare un bilancio univoco che riguardi le tante micro-realtà locali. Quello che possiamo fare è soltanto registrare che il clima sta peggiorando inesorabilmente e che ci stiamo avviando verso quella che Leonardo Boff, scrittore e teologo della liberazione brasiliano, chiama l’abisso ecologico. L’allarme ecologico continua a risuonare inascoltato, i mercati sono sempre più ferocemente competitivi e sempre meno regolati, mentre l’economia speculativa continua a proliferare. Durante la Cop 18 sul riscaldamento globale, tenutasi alla fine dello scorso anno a Doha in Qatar, è stato dato praticamente per morto il molto discutibile Trattato di Kyoto, che tentava di arginare il fenomeno ricorrendo a complesse pratiche contabili di compensazione alle azioni di inquinamento atmosferico generate dalle produzioni energetiche e industriali. L’individuazione di soluzioni efficaci al problema del surriscaldamento planetario è stata rimandata al 2015, non senza proclamare nel documento finale dei lavori che Il cambiamento climatico rappresenta una minaccia urgente e potenzialmente irreversibile per le società umane e per il pianeta e questo problema deve essere affrontato urgentemente da tutti i paesi.

In piena crisi di sistema, il mercato impone la continuazione dello sfruttamento illimitato della natura e dell’accumulazione illimitata di profitti per una limitata elite finanziaria al potere, con la conseguente creazione di una doppia ingiustizia: sociale, con le perverse disuguaglianze a livello mondiale, ed ecologica, con la cancellazione della biodiversità e la destrutturazione della rete della vita che garantisce la nostra sopravvivenza.  Sul Titanic si continua a far musica e ballare anche se le montagne di ghiaccio sono ben visibili dal ponte di comando. A sostenere ed alimentare la crisi che imperversa ovunque nel mondo resta sempre il falso obiettivo della crescita illimitata, anche se l’aumento del famigerato Prodotto Interno Lordo non lo si sbandiera più di tanto a causa del disvalore che ha finito per caratterizzarlo. Ormai si sa che le guerre e le catastrofi fanno impennare il PIL verso l’alto. Una crescita che pare non si possa realizzare  che con l’utilizzo dell’energia fossile, con la nuove energie “verdi” che sottraggono terreno fertile all’agricoltura e con il flusso totalmente libero dei capitali, specialmente quelli speculativi del finanz-capitalismo. Anziché riconoscere la fondatezza e la gravità dell’allarme lanciato da gran parte degli esperti di settore, meteorologi, biologi, geografi, naturalisti dell’impatto antropologico sul clima, si preferisce continuare a parlare di sviluppo sostenibile, concetto contradditorio perché lineare, sempre crescente, e che presuppone il dominio della natura e la rottura dell’equilibrio eco sistemico, pur sapendo che il sistema-Terra è limitato e non sopporta progetti illimitati, che non possiedono sostenibilità, un termine che proviene dalle scienze della vita, una vita non-lineare, organizzata in reti di interdipendenza di tutti con tutti, reti che mantengono attivi i fattori che garantiscono il suo perpetuarsi così come quello della nostra vecchia civiltà.
Alle potenti multinazionali dell’energia, dell’agri-business, delle comunicazioni e dei trasporti continua ad essere delegata la gestione della produzioni delle merci e del loro consumo, compreso il cibo che ci nutre, consentendo loro di influenzare politicamente i governi e boicottare qualsiasi misura che faccia diminuire i loro profitti.  Questo modello non funziona più né nei paesi centrali, come dimostra la crisi attuale, né in quelli periferici. Come ci dice Leonardo Boff, o si trova un altro tipo di crescita che sia essenziale per il sistema-vita, ma che per noi deve rispettare la capacità della Terra e i ritmi della natura, o incontreremo l’innominabile. L’unica “ragione” ad avere cittadinanza in questo sistema è quella strumentale, ma il filosofo francese Patrick Viveret ci ricorda che la ragione strumentale senza l’intelligenza emozionale ci può portare perfettamente alle peggiori barbarie, come accadde nel trascorso secolo violento, quando la ragione strumentale asservita al grande capitale determinò l’ascesa irresistibile e il tragico crollo delle peggiori dittature (Por uma sobriedade feliz, Quarteto 2012). Edward Osborne “E. O.” Wilson, biologo e naturalista americano chiosa “poeticamente”, che se non incorporiamo l’intelligenza emozionale alla ragione strumentale-analitica, non sentiremo mai il grido degli affamati, il gemito della Madre Terra, il dolore delle foreste abbattute e la devastazione attuale della biodiversità, nell’ordine di quasi centomila specie all’anno.
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Il riscaldamento globale è causato in gran parte dalla deforestazione, che genera il 25/30% dei gas serra rilasciati ogni anno nell’atmosfera. L’inquinamento dovuto ai trasporti è responsabile del 14% delle emissioni globali di gas che trattengono calore ed un altro 14% è causato dall’inquinamento industriale. Il traffico aereo rappresenta soltanto il 3% del totale delle emissioni inquinanti. Questi dati sono contenuti in una relazione del Global Canopy Programme (GPC), una cooperazione tra i principali scienziati di foreste pluviali, con sede a Oxford, in Inghilterra. Le foreste pluviali costituiscono una preziosa fascia di raffreddamento intorno all’equatore terrestre, ma la loro deforestazione, anche se rallentata nell’ultimo decennio, oggi viene ancora considerata dagli esperti una delle principali cause del riscaldamento globale. Le emissioni di carbonio provenienti da questa attività, infatti, superano di gran lunga i danni causati dagli aerei, dalle automobili e dalle fabbriche. La pratica del “taglia e brucia” , slash and burn, ancora utilizzata nelle foreste tropicali come tecnica di coltivazione per rendere i terreni fertili con la cenere derivante dal disboscamento dell’area, è seconda solo al settore energetico in quanto a produzione di gas serra.  questi dati sono confermati dallo Stern Report, un importante documento di riferimento.
Andrew Mitchel, zoologo e ambientalista, fondatore e direttore esecutivo del GPC, afferma che la riduzione delle catastrofiche emissioni di gas conseguenti alla distruzione delle foreste del Brasile, Indonesia, Congo e di altri paesi non necessita di nuove tecnologie, ma solo della volontà politica e di un sistema operativo e di incentivi da parte dei governi destinati agli attori locali, in modo da far capire che gli alberi hanno un valore maggiore in vita piuttosto che una volta abbattuti. Secondo Mitchell, i paesi ricchi concentrano la loro attenzione su soluzioni tecnologiche che riducano le emissioni, ma non forniscono nessun incentivo alle nazioni più povere per smettere di bruciare la foresta, non risolvendo quindi il problema. Siamo soliti a pensare alle foreste solo in termini di assorbimento di CO2, ma gli alberi sono per il 50% carbonio e quando essi vengono abbattuti e bruciati, la CO2 che hanno immagazzinato ritorna nell’atmosfera.
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La foresta pluviale dell’Amazzonia, il bacino del Congo e l’Indonesia sono considerati i polmoni del pianeta. L’Indonesia è la terza produttrice di gas serra nel mondo, il Brasile occupa il secondo posto. Entrambi i paesi hanno in comune l’utilizzo della foresta tropicale, tagliata e bruciata con una rapidità sconcertante. Negli ultimi anni, le foreste pluviali del Borneo, divise tra Malesia e Indonesia, a causa della rapida espansione delle piantagioni di palma stanno subendo una forte deforestazione. Queste piantagioni ricoprono oramai il 13% del territorio malese, mentre nel 1974 ne ricoprivano appena l’1%. Il recente boom del biodiesel e dei biocarburanti, considerati più ecologici dei convenzionali, ha incrementato ulteriormente la domanda di olio di palma, già molto usato nell’industria alimentare e cosmetica. Le emissioni di ossidi di azoto sono fino a quattro volte maggiori nelle piantagioni che non nella vicina foresta naturale. Lo stesso vale per i composti volatili organici (VOC). Questi gas, immessi nell’aria, generano ozono, il principale inquinante della bassa atmosfera, con impatti sulle vie respiratorie e sulla vegetazione.
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Le foto satellitari catturano una simile immagine di devastazione in corrispondenza del bacino del Congo, tra la Repubblica Democratica del Congo, la Repubblica Centrale Africana e la Repubblica del Congo.
In Bolivia, in particolare su un’area di foresta tropicale che si trova ad est di Santa Cruz de la Sierra, sino dalla metà degli anni 80′ l’insediamento in nuovi territori di contadini poveri provenienti dall’Altopiano delle Ande e lo sviluppo su grande scala dell’agricoltura, il cosiddetto Progetto di Tierras Baja, ha comportato la deforestazione dell’area.
A sinistra, com’era la zona il 17/06/1975, in centro il 10/0/1992, a destra il 01/08/2000.
fonte: Landsat Mission. NASA/USGS.
I dati verificati nel 2003 indicavano che a causa della deforestazione due miliardi di tonnellate di CO2 venivano immessi nell’atmosfera ogni anno. Una distruzione che ammontava a 200.000 km2 abbattuti annualmente, corrispondente ad un’area di dimensioni pari a Inghilterra, Galles e Scozia. Il rapporto del GCP conclude “Se perdiamo le foreste, perdiamo la lotta contro il cambiamento climatico”. Il protocollo di Kyoto, che dovrebbe regolamentare le emissioni di carbonio, non aveva originariamente incluso le foreste, ritenendo che la speranza maggiore per fermare il riscaldamento globale fosse limitare il mercato di carbonio. E’ oggi evidente che, oltre ad essere ampiamente disattese, le misure precauzionali previste da questo documento non sono più sufficienti a ridurre il riscaldamento globale, così come sottolineato dall’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), gruppo di lavoro costituito nel 1988 dall’Onu per lo studio dei cambiamenti climatici.
Le scelte operate dal mercato mondiale continuano a favorire l’agricoltura monoculturale e l’allevamento intensivo, entrambi causa di deforestazione. In Europa si è tentato di contenere il fenomeno introducendo incentivi economici all’abbandono delle coltivazioni a favore di un ampliamento delle aree forestate, ma nessuna norma ha ancora prodotto una reale inversione di tendenza nell’uso del suolo agricolo che riconosca il valore economico e sociale del ripristino di elementi naturali come i boschi lineari, le siepi interpoderali, il mantenimento delle zone umide e di tutte quelle buone pratiche agricole che un tempo erano patrimonio comune diffuso della cultura contadina e che consentivano di mantenere vitale il suolo. Forse c’è qualche speranza con l’introduzione delle nuove normative della PAC, Politica Agricola Comunitaria, anche se le modalità di applicazione delle norme ha spesso disatteso le aspettative dei coltivatori e degli ecologisti, finendo per essere un ulteriore incentivo alle pratiche speculative. Questa mancanza di lungimiranza negli indirizzi macro-economici penalizza in particolar modo le nazioni ancora in via di sviluppo. La Papua Nuova Guinea, una delle nazioni più povere al mondo, lo scorso anno ha dichiarato di non avere altra scelta che continuare con la deforestazione, se non venivano forniti incentivi finanziari per sostituirla. Le multinazionali e i governi loro sottomessi continuano a perseguire soluzioni “tecnologiche” alla catastrofe del cambiamento climatico, erogando sussidi per la produzione di  biocarburante, finanziando sistemi complessi di cattura del carbonio e centrali nucleari di ultima generazione. Al contrario, fornire degli incentivi alle popolazioni che vivono nelle aree critiche, per creare attività alternative di sostentamento e assegnare un valore al carbonio che queste vitali foreste contengono, è l’unica via per rallentare la loro distruzione e ridare speranza di un futuro vivibile alla generazione cinicamente definita no future.