La pelle dei Dendrobatidi è nota non solo per gli sgargianti colori ma anche per essere estremamente velenosa, peculiarità sfruttata dagli indios amazzonici per avvelenare frecce e dardi di cerbottane con il secreto cutaneo tossico di queste ranocchie, note per questo comunemente come “arrow frogs” (rane freccia).
L’appellativo di “rane tossiche o da freccia“ se lo sono conquistato grazie alla presenza di numerosi alcaloidi tossici (detti batracotossine) nella cute degli individui selvatici e di cattura; alcuni di questi sono tossine potentissime ed in grado di uccidere un uomo. Solo le tossine di Phyllobates terribilis, peraltro poco diffusa in cattività, sono realmente letali per un essere umano.
Nonostante ciò tutti i dendrobatidi di cattura andrebbero maneggiati con guanti in lattice inumiditi, con il duplice scopo di non assorbire per via transcutanea le loro dermotossine, in particolare attraverso piccole ferite, e di non ledere la loro cute piuttosto delicata.
Il veleno
Molti anfibi hanno infatti elaborato una strategia difensiva contro i predatori secernendo veleno dalla pelle.
I Dendrobatidi sono conosciuti per essere tra gli esseri viventi più velenosi al mondo, ed in un certo senso ciò è vero, ma bisogna fare alcune doverose precisazioni.
Spesso gli animali pubblicizzano la propria velenosità con colori sgargianti, disegni elaborati e molto attraenti: il messaggio che vogliono trasmettere è “guarda, non mi nascondo e non mi mimetizzo, ma prova a mangiarmi e per te sarà la fine”. Poichè la strategia funziona bene, tutti i dendrobatidi l’hanno adottata, ma tra esse solo alcune sono mortalmente velenose. Phyllobates terribilis è sicuramente la più famosa e gli Indios della regione del Choco, in Colombia, la utilizzano per avvelenare i dardi delle cerbottane con cui cacciano.
Questa pratica fu osservata e descritta dal capitano Charles Stuart Chocrane già nel 1823, che così scriveva “gli indigeni trasportano le rane all’interno di una canna da zucchero, nutrendole costantemente, quando poi hanno bisogno del loro veleno, inseriscono un bastoncino piatto nella bocca della rana spingendolo in profondità, l’animale immediatamente incomincia a secernere veleno in particolar modo sul posteriore della schiena che, velocemente, si ricopre di una sostanza bianca nella quale i cacciatori inumidiscono i dardi che rimangono letali anche per più di un anno”.
Ancora oggi nelle regioni più remote nulla è cambiato e gli Indios utilizzano ancora le Phyllobates terribilis per il loro veleno; le popolazioni che vivono a sud della regione del Choco, dove la Phyllobates terribilis vive, non hanno bisogno di adottare tutto questo procedimento: basta loro bloccare la rana e passarvi sopra il dardo, l’altissima tossicità della loro pelle è sufficiente ad avvelenarlo. Il veleno prodotto da una singola rana è sufficiente per rendere letali 50 dardi usati poi per cacciare uccelli, scimmie e piccoli mammiferi terrestri.
Il veleno viene prodotto da piccole ghiandole distribuite in maniera omogenea su tutta la superficie del corpo, i dendrobatidi producono diversi tipi di tossine più o meno potenti; sicuramente la più letale è la batrachotossina.
Solo due tossine al mondo sono più letali, il botulino prodotta dal batterio Clostridium botulini e la palytossina prodotta da invertebrati marini del genere Palythoa. La batrachotossina è molto più potente di veleni più “famosi” come quello del serpente australianoTaipan (Oxyuranus scutellatus), del Cobra (Naja sp.), del curaro ed è 5000 volte più potente del cianuro di potassio. La batrachotossina agisce paralizzando i centri nervosi e tutti i muscoli, bloccando così le funzioni principali che tengono in vita l’organismo; un esperimento effettuato nei primi anni ’70 da Charles W. Myers, John W. Daly e Boris Malkin ha provato che il veleno prodotta da una sola Phyllobates era sufficiente per uccidere 20.000 topi e quindi in proporzione circa 10 persone.
Anche se potentissimo (0,000005 g di veleno di Phyllobates come abbiamo visto sono sufficienti per uccidere un topo!), se non iniettato nell’apparato circolatorio il veleno cutaneo non è mortale per nessun potenziale predatore dei Dendrobatidi, né tantomeno per un essere umano.
In compenso, il contatto con la loro pelle causa forti irritazioni alle mucose, per non parlare del disgusto provocato nella bocca di chi prova a divorare queste ranocchie: l’aggressore ne trae un doloroso e duraturo insegnamento, ancor meglio impresso in quanto la preda disgustosa è facilmente riconoscibile grazie ai suoi colori aposematici (di “avvertimento”) della sgargiante livrea.
A scopo difensivo, infatti, è ben più efficace per una specie (piuttosto che per il singolo individuo) il disgusto provocato nella bocca del predatore che la sua morte: la vittima ha molte possibilità di sopravvivere ma soprattutto l’aggressore ne trae un insegnamento che va a vantaggio sia proprio che dei simili della sua “ex” vittima; questo apprendimento resterà ancor meglio impresso in quanto la preda disgustosa è facilmente riconoscibile grazie ai colori di “avvertimento”: le livree protettive dai colori sgargianti tipiche dei Dendrobatidi.
Altre sostanze vengono prodotte dai dendrobatidi, si tratta prevalentemente di alcaloidi con strutture molto diverse, ma ugualmente molto tossiche che, come per la batachotossina, agiscono tramite il canale sodico; alcune di esse in ordine di tossicità sono: homobatrachotossina, batrachotossina A, pumiliotossina A, B e C e infine histrionicotossina.
Ben 500 alcaloidi potenzialmente tossici sono stati ritrovati nella pelle di queste ranocchie!
Non tutte queste sostanze sono però solamente tossiche e velenose.
Alcune, come l’epibatidina, estratta da Epipedobates tricolor, un alcaloide molto potente, si è scoperto essere un efficacissimo antidolorifico e possiedono proprietà analgesiche 200 volte superiori a quelle della morfina ma senza gli effetti collaterali e le controindicazioni di quest’ultima, trovando quindi un’utilissima applicazione nella terapia del dolore.
La scoperta fu fatta da Daly nel 1976 al National Institute of Diabetes and Digestive and Kidney Diseases in USA. Per 10 anni l’epibatina è stata dimenticata fino a quando due collaboratori di Daly tramite risonanza magnetica sono riusciti a definire la struttura molecolare ed a scoprire he è molto simile a quella della nicotina le cui proprietà analgesiche erano già note: la nuova molecola viene chiamata ABT 594. L’effetto analgesico studiato su diversi modelli sperimentali in vivo è circa 70 volte più potente di quello della molecola di partenza e per di più senza gli effetti collaterali tipici dei derivati dell’oppio tra cui la depressione respiratoria e la dipendenza anche dopo un trattamento prolungato.
La velenosità dei Dendrobatidi e la loro proverbiale tossicità sembra legata alla loro alimentazione in natura, costituita soprattutto da formiche (mirmecofagia), piccoli insetti (afidi, collemboli, farfalline, grilli, ecc.) e millepiedi, da cui essi traggono i precursori biochimici necessari per la sintesi e la produzione delle micidiali sostanze tossiche dai nomi complicati (pumiliotossine, allopumiliotossine, homopumiliotossine, decaidroquinoline, izidine, coccinelline, ecc.).
Circa 500 alcaloidi sono stati ritrovati nella pelle di queste ranocchie!
Studi recenti hanno consentito di scoprire un alcaloide cutaneo dei Dendrobatidi, l’epibatina, con proprietà analgesiche 200 volte superiori a quelle della morfina ma senza gli effetti collaterali e le controindicazioni di quest’ultima, trovando quindi un’utilissima applicazione nella terapia del dolore.
E’ stato dimostrato inoltre che gli individui più “tossici“ sono quelli alimentati quasi esclusivamente con formiche autoctone (soprattutto nelle Hawaii). Questi stessi animali perdono poi gran parte della loro potenziale tossicità dopo due o tre generazioni nate in cattività ed alimentate con piccoli grilli o drosofile.
In cattività la tossicità dei Dendrobatidi tende a diminuire col tempo e con le generazioni, in quanto il cibo che generalmente viene somministrato nel terrario non contiene i precursori delle tossine, presenti invece nelle prede naturali: viene così a mancare il processo di biosintesi di queste sostanze, che rimangono pertanto esclusive delle ranocchie selvatiche.
Dimostrarlo è stato semplice, infatti, animali riprodotti in cattività ed alimentati con Drosophile non presentavano alcuna traccia di veleno mentre altri, sempre nati in cattività, ma allevati con Drosophile che erano state spolverate con alcaloidi del tipo pyrrolizidine, quinolizidine e Indolizidine avevano assorbito gli alcaloidi i quali erano presenti nella loro pelle (Daly, 1994).
Per questo motivo le speranze dei ricercatori di allevare e riprodurre in quantità i dendrobatidi a scopi scientifici fuori dal loro ambiente naturale sono completamente tramontate.
Diversamente per gli appassionati che sono interessati alla bellezza, alla biologia ed ai comportamenti, ma non alla tossicità, il fatto che le rane perdano le loro capacità velenifere non può che essere un vantaggio, avendo la garanzia di non correre alcun pericolo.
Come già accennato, infatti, in cattività la tossicità dei Dendrobatidi tende a diminuire col tempo e con le generazioni, in quanto il cibo che generalmente viene somministrato non contiene i precursori delle tossine, presenti invece nelle prede naturali: viene così a mancare il processo di biosintesi di queste sostanze, che rimangono esclusive delle ranocchiette selvatiche.
Un esemplare adulto prelevato in natura dopo un anno di mantenimento in cattività dimezza le sue potenziali tossicità, che scompaiono del tutto nei suoi figli o al massimo nei nipoti.
Gli individui reperibili in commercio sono per la quasi totalità provenienti da riproduzioni in terrario, dunque dotati di una tossicità assai relativa: ciò non toglie che vadano maneggiati il meno possibile e sempre avendo l’accortezza di indossare guanti in lattice, mantenuti bagnati per non danneggiarne la delicata epidermide).
. Studi di laboratorio hanno dimostrato che un Dendrobatide adulto prelevato in natura dopo un anno di mantenimento in cattività dimezza le sue potenzialità velenifere, che scompaiono del tutto negli individui di seconda o al massimo terza generazione.
Quindi mi sento in questa sede di poter rassicurare tutti gli appassionati affermando che tutti i dendrobatidi nati in cattività non sono velenosi e non costituiscono un pericolo per chi li allevi o li maneggi.